Cochin al tramonto assomiglia a un formicaio impazzito. Migliaia e migliaia di motorette intersecano con traiettorie suicide il difficile procedere verso casa del fiume di auto. I clackson suonano ininterrottamente per chiedere strada o per scansare pedoni, carretti, mercanzie: il concerto è assordante, reso ancor più pittoresco dalle grida dei mercanti di strada che propongono le ultime offerte della giornata. La luce incerta del crepuscolo stenta a penetrare la densa coltre dei fumi del traffico e quella del vapore che sale dalla laguna che si insinua fra le penisole, le baie, i ridossi, le isole su cui si adagia la capitale del Malabar.
Fort Cochin è uno dei più vecchi quartieri della città e ha conservato l’aspetto coloniale e romantico costruito in secoli di storia: il vecchio cimitero olandese e l’esclusivo Cochin Club da un lato, il quartiere ebraico dall’altro che si sviluppa fra caffè in riva al mare e deliziosi piccoli ristoranti sino alla antica sinagoga, proprio di fronte all’India Pepper and Spice Trade Building. Lungo la riva settentrionale, il fantastico schieramento delle gigantesche reti da pesca cinesi, sospese a pali arcuati e movimentate da complessi sistemi di leveraggi e contrappesi. L’attiguo mercato del pesce ne è la logica e chiassosa integrazione. A poche centinaia di metri sorge la antica Chiesa di San Francesco: è qui che per 15 anni hanno riposato le spoglie di Vasco da Gama. Il responsabile della chiesa, il reverendo Jacob, mi sorride facendomi cenno di entrare.
Sul finire del 1400 già da molti secoli le spezie costituivano il principale indicatore delle economie mondiali e il loro commercio rappresentava, ancor più dell’oro, un elemento di fondamentale importanza nella storia dei popoli: alle spezie si riconoscevano eccezionali virtù terapeutiche contro moltissimi malanni e il loro utilizzo in cucina – specie per la conservazione dei cibi – era considerato essenziale. Gli arabi erano da sempre i detentori di questo commercio lucroso che, prima di concludersi sulle tavole dei ricchi europei, poteva prevedere decine di passaggi di mano e, di conseguenza, determinare vertiginosi aumenti del prezzo della cannella o della noce moscata o del pepe.
Gli arabi erano così gelosi del loro monopolio che non esitavano a fornire indicazioni volutamente errate sui luoghi d’origine delle preziose spezie e sulle modalità di coltivazione, comunque assolutamente non trasferibili nei climi temperati mediterranei. Ma alla fine anche gli europei capirono che la fonte di tanto ben di Dio si collocava in India o nelle isole vicine e decisero che la cosa migliore era di andare direttamente sul posto a farne provvista. L’idea di raggiungere l’India via mare, non importa da quale parte procedere, di inventare una rotta delle spezie in alternativa alla omonima via e di conquistare così il controllo del commercio dei preziosi frutti d’Oriente era diventata ormai una necessità per i sovrani europei specie quando, caduta Costantinopoli in mano ai turchi a metà del ‘400, si era interrotta la via terrestre che alimentava da secoli i rifornimenti delle spezie e dalle quali prendeva il nome.
Fu così che tre intrepidi marinai decisero di affidare le loro vele alla forza dei venti e di affrontare con i loro fragili legni mari sconosciuti con la ragionevole certezza di dover fronteggiare per la prima volta nella storia le tempeste del “Mare Oceano” accompagnate, forse, da anguille lunghe oltre 100 metri, dalla Scolopendra dalle fiamme ardenti, da draghi marini dalle sette teste e da tutte le altre fantasie e superstizioni terrificanti che avevano per secoli paralizzato anche gli animi più audaci e ingessato lo sviluppo del mondo. Quei tre intrepidi marinai, Cristoforo Colombo, Vasco da Gama e Ferdinando Magellano, erano animati dallo stesso proposito: raggiungere l’India via mare, aggirando così il millenario monopolio degli arabi lungo le loro piste nei deserti infuocati. Ma se la stessa destinazione era la stessa, ciascuno di loro si incamminò per strade del tutto diverse: uno andò diritto verso Ovest, l’altro – superata l’Africa – girò a sinistra verso Est e l’altro ancora, Magellano, puntò deciso a Sud. Vasco da Gama nacque a Sines in Portogallo nel 1469 (ma la data, al solito, non è certa) figlio di un nobiluomo che in quella città ricopriva la carica di giudice e, forse, di sindaco. Il giovane, dotato di una ferrea volontà e di una determinazione incrollabile, si era da tempo messo in luce per i servigi resi alla Corona difendendo con successo i traffici portoghesi lungo le coste dell’Africa occidentale dalle insidie dei pirati francesi. Da parecchio tempo la Corte portoghese, che già vantava una considerevole esperienza marinara lungo le coste occidentali dell’Africa, accarezzava l’idea di organizzare una spedizione navale per raggiungere l’India via mare.
Enrico, detto appunto il Navigatore, non era mai stato a bordo di una nave ma aveva fatto molto di più incoraggiando, con singolare modernità, la nascita di scuole per giovani ufficiali. Il suo successore, Giovanni II, incominciò a dare forma al progetto, ordinando il legname dalle foreste reali di Alcàcer e di Leiria per la costruzione di tre vascelli larghi abbastanza per affrontare i pericoli del lungo viaggio e “attrezzati nel modo migliore per assicurare pieno successo all’impresa della scoperta della via oceanica per l’India”. Purtroppo re Giovanni morì prima di veder ultimata la flotta e, soprattutto, prima di aver svelato il nome dell’uomo a cui intendeva affidare l’impresa. Una sera di febbraio del 1497 il suo successore, re Manuel detto Il Fortunato, se ne stava in pantofole accanto al suo camino a leggere documenti della Corte, quando Vasco da Gama capitò per caso e non annunciato nella stanza reale. Manuel finse di non accorgersi della sua presenza e continuò a sfogliare i documenti per un bel po’, fin a quando alzò il capo e, guardandolo fissamente, gli affidò seduta stante il comando della spedizione verso l’India con la carica di Capitano Maggiore. L’episodio, autentico, si spiega con l’atmosfera informale, se non casual, della Corte portoghese, ma lascia un po’ perplessi sui criteri di selezione vista la grande disponibilità di candidature ben più blasonate. Quell’incontro, con quello che ne seguì, era destinato ad assegnare al Portogallo il ruolo di protagonista nel campo dei traffici marittimi delle spezie per buona parte del XV e del XVI secolo. Con rinnovata lena, i lavori per il completamento delle navi furono portati a compimento così come la composizione dell’equipaggio formato da circa 170 uomini. Dopo aver trascorso la notte in preghiera nella cappella di Nostra Signora di Belém, il mattino di domenica 8 luglio 1497 Vasco da Gama sale trionfante sulla Santa Gabriel scortato da una lunga processione guidata da preti e frati con candele accese e canti inneggianti alla spedizione e alla protezione divina. Tutti gli uomini dell’equipaggio vengono confessati pubblicamente e pubblicamente assolti. Dalle rive del Tago la folla in giubilo applaude commossa i nuovi eroi e l’orgoglioso sfilare delle navi con le vele decorate dalla Croce dell’Ordine di Cristo e dalle Insegne Reali: è il fastoso prologo del roteiro di da Gama in “cerca di cristiani e spezie”. Per la verità il cammino che Vasco si accinge a percorrere, la nuova rotta delle spezie, non è del tutto sconosciuto. Già sul finire del ‘300 due intrepidi genovesi, Vadino e Ugolino Vivaldi, dopo aver sfidato a bordo di due galee l’inviolabilità delle Colonne d’Ercole, erano riusciti a doppiare la punta estrema del continente africano facendo poi perdere le loro tracce fra gli altipiani etiopici. A parte una riconoscente citazione di Dante – che mescola il destino dei fratelli Vivaldi con quello di Ulisse – di quella lontana avventura si era persa conoscenza. A Vasco da Gama era invece ben chiara l’esperienza di Diego Cao che nel 1484 si era spinto fino alle foci del fiume Congo, erroneamente convinto di aver superato la fine del continente, e soprattutto l’impresa di Bartolomeo Diaz, che appena dieci anni prima si era inoltrato con tre piccole caravelle nel Mare Oceano ben oltre i limiti di Diego Cao. Diaz aveva seguito l’inedita volta do largo che, sfiorando il Brasile a poco più di 270 miglia dalla costa, lo aveva portato a scoprire l’unico punto dell’Oceano dove venti e correnti rendono possibile l’attraversamento a vela dell’Equatore. Si era poi spinto molto a Sud senza mai vedere terra fino a quando aveva deciso di virare verso Nordest in cerca di un rifugio. Diaz aveva doppiato la punta estrema dell’Africa senza accorgersene. Quando qualche tempo dopo, subendo le pressioni di un equipaggio ormai stremato e desideroso di tornare a casa, aveva incrociato nuovamente quel passaggio, l’accanimento del mare e dei venti lo avevano convinto ad assegnare a quella propaggine di terra il nome di Capo delle Tempeste. 16 mesi dopo la sua partenza, Bartolomeo Diaz riuscì a ormeggiarsi nuovamente a Lisbona riempiendo di gioia il cuore di re Giovanni II con il suo racconto: il sogno di una via marittima per l’India si poteva davvero realizzare, esso era più di una semplice speranza e a quel Capo occorreva dare un nome benaugurate.
Non Capo delle Tempeste ma Capo di Buona Speranza! sentenziò re Giovanni. E così fu. Quel mattino dell’ 8 luglio 1497 Vasco da Gama, che a dispetto della iconografia ufficiale che lo ritrae con un volto segnato dall’esperienza e contornato da una fluente barba bianca, aveva solo 28 anni, può quindi indirizzare con fiducia la sua piccola flotta verso Sud, tanto più che per il primo tratto di strada può contare sull’aiuto di un pilota ecce- zionale, Bartolomeo Diaz in persona. Ma mentre supera il passaggio obbligato delle Canarie e la nave di Diaz sta facendo vela verso Lisbona, nella sua mente si affollano dubbi e oscuri presentimenti. Il suo collega Cristoforo Colombo aveva certamente sparigliato le carte con la sua impresa: egli, infatti, affermava di aver raggiunto l’India in soli 36 giorni di navigazione dalle Canarie, mentre Bartolomeo Diaz aveva impiegato più di quattro mesi per doppiare Capo di Buona Speranza, ed era solo a metà strada… Inoltre la via transatlantica di Colombo sembrava avere il grande pregio di mettere fuori gioco la platea dell’Oceano Indiano dove si concentrava il commercio islamico delle spezie. E poi c’è quella storia del Trattato di Tordesillas che divide in due il mondo da scoprire, pieno di tra-bocchetti legulei sulle aree di egemonia di Spagna e Portogallo che rendono la vita difficile ad un marinaio peggio delle secche del mare più infido. Forse non stava ren- dendo un grande servigio al suo Paese.
“Per fortuna – continuava fra sé Vasco – posso contare sull’appoggio del Prete Gianni”, un personaggio nato dalla fantasia del tempo a cui si attribuiva il dominio su una specie di Paradiso Terrestre (che qualcuno individuava in Etiopia) fatto d’oro, di miele, di pietre preziose e, naturalmente, di spezie ed al quale si era rivolto lo stesso re Giovanni II inviando in avanscoperta due suoi ambasciatori. Anche Bartolomeo Diaz si era avventurato nella sua impresa alla ricerca del regno del Prete Gianni. Confortato da questa speranza e seguendo i consigli del suo predecessore, Vasco da Gama si inoltra nell’Atlantico seguendo la volta do largo, una rotta ad amplissimo semicerchio, che si distaccava molto dalla costa africana fino a ricongiungersi con la terra all’altezza di Tristan da Cunha nella baia di Sant’Elena, giusto in prossimità del passaggio di Capo di Buona Speranza. Una rotta geniale che, evitando il pantano delle “calme equatoriali” e utilizzando al meglio il gioco delle correnti, sarebbe stata seguita per secoli da tutti i successivi navigatori. Pedro Alvares Cabral, solo tre anni più tardi e anche lui in rotta verso l’India, esagererà nel dilatare il grande arco attraverso l’Atlantico, finendo per scoprire il Brasile.
Vasco da Gama, in questa prima fase del viaggio, dimostra eccellenti doti di marinaio e di leader fronteggiando con eguale capacità e disinvoltura lo scatenarsi delle tempeste intorno al Capo di Buona Speranza (che infine supera al terzo tentativo, il 22 novembre a mezzogiorno) e delle turbolenze in coperta causate da un equipaggio non sempre osse- quiente agli ordini del Capitano Maggiore. Quando la situazione degenera ci pensa Vasco a piombare in coperta come una furia e a “ordinare a tutti di mettersi in ginocchio per chiedere perdono a Dio delle loro malvagie intenzioni”. Con la prua ora rivolta a Nordest, il più sembra fatto. Risalendo la costa orientale africana la flottiglia ha la necessità di ac- costi frequenti per effettuare le riparazioni alle navi danneggiate dalle burrasche e per raccogliere acqua e viveri. Ma gli sbarchi sono prudenti e da Gama spesso utilizza in avanscoperta i forzati e gli esiliati imbarcati a Lisbona in soprannumero. La sosta a Mombasa riserva un’inaspettata ostilità dei locali e Vasco non esita a dare prova del suo carattere forte: un bombardamento delle navi dei nativi e della stessa città provoca un lago di sangue. A good job si direbbe oggi e, infatti, il distaccato commento a bordo è “Quando ne avemmo abbastanza di questo lavoro, ci ritirammo sulle nostre navi per la cena”. Finalmente Malindi con le sue spiagge bianchissime, le palme e la gente cordiale e gentile. Il sultano in persona invia in segno di benvenuto una barca carica di sei pecore e una gran quantità di chiodi di garofano, cumino, zenzero, noce moscata e pepe. Ma c’è di più: la popolazione sembra mostrare grande rispetto per un’immagine della Madonna: non trattandosi di infedeli musulmani, siamo certamente di fronte a cristiani, forse siamo finalmente entrati nel regno del Prete Gianni, pensa ingenuamente Vasco. Si tratta in realtà di indù scambiati per cristiani sulla base della grossolana equazione che chi non è cristiano è un infedele cioè un musulmano e chi non è musulmano è necessariamente un cristiano. I rapporti con il sultano di Malindi sono davvero cordiali al punto che il Capitano Maggiore ottiene da lui un pilota esperto che traccia una rotta sicura attraverso l’Oceano Indiano fino alle coste del Malabar. Quasi certamente non si trattava di Ahmad ibn Majid, il più grande navigatore arabo e autore di testi fondamentali sulla navigazione e sull’astronomia, come alcune fonti tentano di identificarlo, ma certo era un eccellente marinaio che doveva conoscere molto bene le opere di Ibn Majid al punto da metterle a disposizione dei portoghesi. Regalo tanto prezioso quanto scorretto tenuto conto delle regole dell’epoca che proibivano qualunque scambio delle conoscenze acquisite da cia- scun Paese, conservate gelosamente come proprio patrimonio esclusivo.
Dopo sole tre settimane (e 316 giorni dalla partenza da Lisbona) Vasco da Gama può get-tare le ancore al largo di Calicut, nel Malabar. È il 20 maggio 1498. Non sarà tuttavia il Capitano Maggiore a mettere per primo il piede a terra. Così come aveva già fatto in analoghe occasioni, ragioni di prudenza lo inducono ad offrire l’alto onore a uno dei suoi galeotti “da sacrificare” in caso di ostilità, mandandolo in avanscoperta. Il primo europeo a sbarcare in India è accolto da due tunisini che, guarda caso, parlano lo spagnolo e il genovese. “Che mi prenda il diavolo! Cosa ci fai qui?” è la sorpresa e pacifica accoglienza che lo attende, accompagnata da pane e miele. Quando finalmente Vasco da Gama si decide a scendere a terra viene accolto con grandi onori dallo zamorin di Calicut che ancora ricordava con rimpianto i vantaggiosi affari conclusi con i cinesi di Chen Ho qualche decennio addietro: braccia e porte aperte agli stranieri, assetati di pepe nero! “Proprio una brava persona”, lo definisce il cronista di bordo, “profondamente cristiano”. D’altronde che la maggior parte della popolazione sia cristiana è fin troppo evidente. Basta osservare la profonda spiritualità con cui sono venerate le immagini della Madonna e dei Santi dipinte sui muri di un edificio che sbrigativamente viene scambiato per una chiesa. Poco importa se i “santi” hanno sei braccia e i loro denti sporgono dalla bocca per oltre un pollice e se la Madonna sia in realtà Mariamma, la dea del vaiolo. Ma a parte questi svarioni mistici è l’incontro fra Vasco da Gama e lo zamorin che rasenta il grottesco. Appena sceso dal sontuoso palanchino messogli a disposizione dal re, Vasco sciorina orgoglioso i suoi doni, non prima di aver ampiamente illustrato la grandezza e la potenza del re del Portogallo di cui lui stesso era ambasciatore: quattro cappucci scarlatti, sei cappelli, quattro fili di corallo, sei bacinelle di stagno, una scatola di zucchero, due barili d’olio e altrettanti di miele. “Tutto qui?” esclama gelido lo zamorin. “Non sono doni per un re, quando il più povero dei mercanti della Mecca mi copre d’oro!”. La situazione si sta facendo davvero imbarazzante e Vasco, che incomincia a realizzare l’insostenibilità della sua posizione, accenna a doni ben più ricchi che, ahimé – si trovano a bordo di un’altra nave separatasi dal convoglio. “Quale nave?” chiede implacabile lo zamorin dando un’occhiata ai mal ridotti vascelli stranieri ancorati in rada e ricordando la flotta di Chen Ho ricca di 20 navi grandi dieci volte quelle del portoghese. Quando il Capitano Maggiore chiederà un’altra udienza, il re di Calicut lo umilierà facendolo attendere fuori della porta quattro lunghe ore. I rapporti rischiano di essere compromessi e i mercanti arabi, che avvertono nell’intrusione dei portoghesi il pericolo mortale dello scippo del “loro” mercato delle spezie, soffiano sul fuoco.
Ciononostante da Gama riesce, dopo molti mesi di trattative, a concludere un accordo commerciale e a costituire un presidio portoghese a Calicut, dopo aver promesso di ritornare con doni più adeguati e dopo aver acquistato a prezzi stratosferici un piccolo campionario di spezie locali, che comunque gli frutteranno il 3000 per cento. All’inizio di settembre Vasco da Gama può finalmente ripartire. All’ultimo momento chiede ed ottiene di imbarcarsi uno dei due tunisini di lingua ispano-genovese che quattro mesi prima avevano accolto così amichevolmente il primo europeo arrivato dal mare: l’aria del posto si era fatta un po’ pesante per lui. Il viaggio di ritorno è ben più avventuroso di quello dell’andata e presenta aspetti misteriosi sinora non del tutto decifrati dagli studiosi. La mancanza a bordo del prezioso pilota si fa sentire e Vasco deve combattere contro le correnti e i venti contrari: le tre settimane che erano occorse per raggiungere l’India da Malindi diventano tre lunghi mesi di sofferenze nella direzione inversa.
Lo scorbuto miete vittime fra l’equipaggio al punto che il Capitano Maggiore non può più contare sugli uomini necessari a condurre tre navi: una di queste, la San Raphael, viene sacrificata incendiandola. Dei 170 uomini partiti, ne torneranno a casa solo 54. I venti sono così ostinati e furiosi che spesso le due navi superstiti vengono trascinate indietro perdendo terreno e tempo. Faticosamente superato il Capo di Buona Speranza il fratello del Capitano Maggiore, Paolo, si ammala gravemente e Vasco è diviso fra le esigenze della navigazione e le cure all’amato fratello. In rotta verso le isole di Capo Verde le due navi si separano e Nicholau Coelho al comando della Berrio si dirige senz’altro verso Lisbona, dove giungerà il 10 luglio 1499: insubordinazione o accordo fra i due o semplice sete di gloria di Nicholau?
La nave non reca a bordo nemmeno un esemplare delle tanto agognate spezie, ma un tesoro ben più importante rappresentato dal Roteiro, ossia dal Diario che descrive e conferma il successo della spedizione. Il cuore di re Manuel il Fortunato si riempie di gioia e Coelho lascia che si diffonda la convinzione che da Gama sia morto. Passa una ventina di giorni ed ecco che si profila un’altra nave all’orizzonte: è la San Gabriel, la nave ammiraglia della spedizione, che profuma fin da lontano degli intriganti aromi che il Capitano Maggiore era riuscito ad acquistare a Calicut. Ma non è Vasco a condurla; è il suo scrivano Joao de Barros che, convinto di trovare il suo Capitano sano e salvo già a casa, dichiara disperato di voler tornare indietro per andarlo a cercare. Dove è Vasco e cosa gli è successo? Pare che, sopraggiunta la morte del fratello, abbia deciso di fermarsi a Capo Verde, dandogli onorata sepoltura. Qui, affranto dal dolore avrebbe sorprendentemente affidato il comando della nave al suo fedele scrivano, nonostante la disponibilità a bordo di tanti bravi marinai. Finalmente da Gama decide che è arrivato anche il suo momento. Affitta (proprio così, noleggia) una caravella e si dirige verso Lisbona dove giunge verso la fine di agosto.
Ma, con consumata regìa, si nega al bagno di folla che ormai lo crede morto, non si fa vedere in giro e si ritira per una decina di giorni nel monastero di Santa Maria di Belém dove, due anni prima, aveva trovato ispirazione e protezione per il viaggio. Finalmente, dopo aver lasciato che la sua immagine si consolidi nella leggenda, l’8 settembre sale le ripide stradine che lo portano al Castello di San Giorgio e fa il suo ingresso a corte. Le accoglienze sono trionfali, accuratamente preparate da Manuel che fin da luglio, grazie all’anticipato arrivo di Coelho, aveva sbandierato a tutti i sovrani d’Europa (Papa compreso) la grandezza dell’impresa e la potenza marinara del Portogallo e, quindi, la fine del monopolio arabo e dei relativi intermediari veneziani nel commercio delle spezie. Quest’ultima è una gran brutta notizia per gli addetti al settore e qualche commentatore fiorentino non vede altra scelta per gli uomini “del Soldano e per i viniziani” che quella di “tornare pescatori”. Naturalmente l’alternativa non è gradita ai musulmani e la miccia è accesa: le successive spedizioni di Manuel in India si concludono nel sangue. Già Cabral nel 1501, per vendic re l’uccisione degli uomini lasciati nella guarnigione, non esita a bombardare un vascello carico di fedeli di Maometto e a radere al suolo l’intera Calicut e lo stesso Vasco da Gama, l’anno seguente, al c mando di una grande flotta di 20 navi e di un esercito di 2000 uomini compie uno dei più grandi massacri della storia marittima uccidendo senza pietà 400 uomini disarmati, donne e bambini nel loro viaggio di ritorno da La Mecca. Vasco da Gama, ormai viceré dell’India, morirà a Cochin la notte di Natale del 1524 e verrà sepolto nella chiesa di San Francesco, la più antica dell’India e, forse, dell’intera Asia. Oggi la chiesa ha cambiato il proprio nome in Church of South India e non accoglie più le spoglie mortali del grande navigatore che, nel rispetto delle sue volontà, sono state traslate a Lisbona pochi anni dopo la sua morte. Ma il reverendo Jacob, nella sua tunica bianchissima, mi mostra orgoglioso la nuda pietra sul pavimento della chiesa che riporta ancora la semplice iscrizione su tre righe “Vasco da Gama”. “Qui possono entrare tutti, cristiani, protestanti, anglicani, cattolici” mi dice so ridendo Jacob dal fondo dei suoi pesanti occhiali scuri. Qui, sul sagrato di questa antica chiesa, certe ferite sembrano essersi rimarginate. Dalla terrazza del Brunton Boatyard ripenso a questa storia godendomi lo spettacolo notturno di Cochin illuminata. “Un altro martini, Mr. Grosso?” mi chiede l’impeccabile barman dell’albergo. Annuisco, sfidando il calore appiccicoso della notte. Dalla galleria degli antenati nella hall, il ritratto di Vasco da Gama mi guarda con disapprovazione.
Testo di Giorgio Grosso pubblicato sul numero 47 di Arte Navale. Su gentile concessione della rivista Arte Navale.Le immagini sono pubblicate su gentile concessione della rivista Arte Navale. E’ fatto divieto per chiunque di riprodurre da mareonline.it qualsiasi immagine se non previa autorizzazione direttamente espressa dall’autore delle immagini al quale spettano tutte le facoltà accordate dalla legge sul diritto d’autore, quali i diritti di utilizzazione economica e quelli morali.
pubblicato il 1 Aprile 2018 da admin | in | tag: Cochin, Malabar, Vasco da Gama | commenti: 3
Due considerazioni. La prima: il testo è decisamente troppo lungo per Internet. La seconda: nonostante sia lunghissimo l’ho letto tutto d’un fiato. Complimenti vivissimi all’autore, veramente bello, ben scritto, interessante…
Molto bello.
Sono d’accordo con Andrea, l’articolo del signor Giorgio Grosso è bellissimo, come del resto altri suoi scritti che in passato ho avuto il piacere di leggere su Arte Navale, rivista alla quale mi onoro di essere abbonato da anni. Auguri a tutti, e in particolare al direttore Riccardo Sassoli.