Sembra la trama di una commedia in cui un eccentrico miliardario americano si costruisce un mondo tutto suo in mezzo al mare. Invece è una storia vera, totalmente nostrana. Quarantadue anni fa, il primo maggio 1968, fu fondata una Repubblica indipendente su un’isola d’acciaio piazzata a una dozzina di chilometri da Riccione, in pieno Adriatico, appena fuori dalle acque territoriali italiane. Pochi oggi ricordano questa faccenda che all’epoca suscitò un gran clamore con tanto di interpellanze parlamentari, sentenze, occupazione militare e, meno di sette mesi dopo, gran botto finale con quintali di dinamite. Un’operazione che qualcuno considerò al limite del diritto internazionale, mentre il governo in esilio lanciava appelli disperati all’Onu e stampava francobolli con drammatici epitaffi. Nome ufficiale in esperanto: Esperanta Respubliko de la Insulo de la Rozoj, che i giornali di allora sintetizzarono e tradussero in Repubblica delle Rose.
Progettista, fondatore e capo dello Stato, Giorgio Rosa, vulcanico ingegnere bolognese che, nonostante i divieti delle autorità italiane, riunì alcuni fedelissimi e formò un governo con tanto di presidente del Consiglio e cinque ministri. Tutti impegnati ad amministrare un territorio di 400 metri quadrati, con negozi, un ristorante, l’ufficio postale, un attracco per i natanti e un distributore di carburante che avrebbe dovuto vendere benzina a prezzo ridotto, cioè senza le accise.
Lingua ufficiale, l’esperanto. Abitanti stabili: 2, il custode e la moglie. Insegna della Repubblica: bandiera arancione con al centro uno scudo bianco ornato da tre rose rosse. Moneta ufficiale il mil, che però non fece in tempo a entrare in circolazione. L’ingegner Giorgio Rosa, ex presidente della Repubblica delle Rose, era spinto da un’idea di libertà. “In quell’Italietta democristiana in cui tutto era proibito, l’idea di creare qualcosa che sfuggisse a qualsiasi vincolo mi esaltava e così mi buttai nell’impresa. L’obbiettivo era chiaro: creare un’attrazione turistica. Il momento mi pareva maturo, l’autostrada congiungeva Bologna a Rimini, il turismo aumentava, le barche portavano i bagnanti in gita al largo della riviera, senza una meta. Io pensai di crearla. Gli operatori della zona furono subito entusiasti ma i politici fecero di tutto per contrastarmi e cominciarono a circolare voci stravaganti o calunniose.
Si disse che intorno all’isola erano stati avvistati sottomarini sovietici, che coprivo misteriosi interessi dell’Albania, che operavo per conto della mafia, che volevo creare una casa di tolleranza in mezzo al mare. Era solo una buona idea commerciale, ma avevo a che fare con un’Italia ottusa che pur di schiacciarmi ricorse a un vero e proprio atto di pirateria. A Roma erano spaventati da un’idea basata su un principio di libertà; forse li spaventarono anche i francobolli che emisi e stavo anche per battere moneta, ma era un gioco, una trovata pubblicitaria, non volevo certo far concorrenza alla Zecca”. L’ingegnere ricorda tutti i particolari e pare un fiume in piena.
“Quando tutto saltò in aria rimasi disgustato mi venne voglia di emigrare, e qualche volta mi viene ancora. In quell’avventura ci persi parecchi soldi, ma la notizia dell’isola artificiale indipendente fece il giro del mondo e mi portò una tale quantità di richieste di lavoro che, alla fine, forse, ci guadagnai”. Dopo più di quarant’anni, dell’Isola delle Rose non è rimasto molto: qualche foto ingiallita, ritagli di vecchi giornali, i francobolli emessi nei pochi mesi di vita della Repubblica e tanti ricordi. L’idea, all’ingegnere, venne verso la fine degli anni Cinquanta: costruire a terra una struttura in acciaio, trasportarla per galleggiamento 500 metri oltre il limite delle acque territoriali e fissarla al fondo marino. Inizialmente l’isola sarebbe stata formata da due piani sovrapposti di 20 metri per 20 ciascuno, ma con il tempo i piani sarebbero diventati cinque: un vero palazzo d’acciaio sull’acqua, dove i turisti avrebbero trovato tutto quello che volevano. Messo a punto il progetto (Brevetto n. 850.987), nel luglio del 1958 l’Ingegnere inizia i sopralluoghi in mare facendo avanti e indietro tra la costa e il punto X con una barchetta spinta dal motore di una Fiat Cinquecento. Base delle operazioni, un capanno sul molo di Rimini. Seguono quattro anni di difficoltà, tra mare grosso, problemi tecnici e finanziari e prime intimazioni delle autorità marittime ad abbandonare l’impresa ormai avviata.
L’ingegner Rosa si destreggia tra permessi e divieti, mentre l’isola cresce di pari passo con le preoccupazioni della Capitaneria di Porto di Rimini che, nel 1966, ordina la cessazione dei lavori poiché la stessa zona di mare è stata data in concessione all’Eni (che infatti vi istallò dei pozzi per l’estrazione di metano). Interviene anche la polizia, ma si accontenta della dichiarazione che si tratta di lavori sperimentali. Nei primi mesi del 1968 l’isola prende forma e, sui pali infissi nel fondale, viene realizzato il primo piano del territorio, 400 metri quadrati, sospeso a 8 metri di altezza sulla superficie del mare. Da Rimini cominciano ad arrivare commendatori, ritardatari della dolce vita e attricette in cerca di fotografi, che in un’ora di motoscafo assaporano la novità extraterritoriale. Ormai l’isola è cosa fatta e alla nuova Repubblica non resta che nascere. Il primo maggio l’ingegner Rosa battezza il nuovo Stato, formalizza l’ordinamento repubblicano e nomina il governo: Capo dello Stato: ingegner Giorgio Rosa; presidenza del Consiglio: Antonio Molossi, ingegnere civile; Finanze: Maria Alvergna, professoressa di Inglese; Interni: Carlo Chierici, medico; Esteri: Cesarina Mezzini, professoressa di Italiano; Industria e Commercio: Luciano Marchetti, medico; Comunicazioni: Luciano Molé, avvocato.
Il 21 giugno Rosa viene contattato dal capitano Barnabà, agente del servizio segreto militare italiano, che vuol capire che cosa ha in mente davvero l’ingegnere. Rosa cerca di rassicurarlo, ma capisce che non c’è tempo da perdere e tre giorni dopo organizza una conferenza stampa per annunciare al mondo che in mezzo all’Adriatico è nata una nuova Repubblica indipendente. A Roma sobbalzano e inviano una motovedetta a pattugliare lo specchio d’acqua e impedire a chiunque l’attracco all’isola. È un vero e proprio blocco navale che prepara l’occupazione militare della Repubblica delle Rose.
All’alba del 25 giugno, 55 giorni dalla dichiarazione di indipendenza, una decina di pilotine della polizia, con a bordo agenti della Digos, dei carabinieri e della guardia di finanza, circondano la Repubblica delle Rose. I militari si arrampicano sui tralicci, occupano l’isola e catturano due prigionieri: Pietro Ciavatta, guardiano della Repubblica di ferro, e sua moglie. Giorgio Rosa, capo dello Stato occupato, reagisce dall’esilio inviando un vibrante telegramma a Giuseppe Saragat, allora Presidente della Repubblica Italiana, per protestare contro la grave violazione della sovranità nazionale e per il danno arrecato al turismo della Romagna. Ma non riceve alcuna risposta. Allora decide di mettere in circolazione una nuova serie di francobolli della Repubblica delle Rose, con sovrastampata la dicitura Itala okupado, occupazione italiana. A quel punto è guerra aperta e il caso finisce in Parlamento. Il 5 luglio, l’onorevole Stefano Menicacci, del Movimento Sociale Italiano, presenta al ministro dell’Interno Francesco Restivo un’interrogazione “per sapere quale sia l’atteggiamento ufficiale assunto dal Ministero in merito alla costruzione denominata Insulo de la Rozoj… che fa presumere l’esistenza di uno Stato burletta all’interno dello Stato italiano”.
Il giorno 10 è Nicola Pagliarini, del Partito Comunista Italiano, a presentare un’interrogazione altrettanto allarmata. Avvocati, giudici, costituzionalisti, esperti di diritto internazionale e diritto del mare, sono mobilitati per la crisi “internazionale”. L’Onu, puntualmente informato dall’ingegner Rosa su quanto sta accadendo nell’Adriatico, non si pronuncia. Intanto circolano voci secondo cui l’attacco e l’occupazione della Repubblica delle Rose avrebbero avuto l’avallo degli Usa. La situazione diventa di ora in ora sempre più concitata. L’8 agosto, il ministero della Difesa, con un dispaccio urgente alla capitaneria di Porto di Rimini, fa notificare a Giorgio Rosa e a sua moglie Gabriella Chierici, presidente della società costruttrice dell’isola, l’ordine di smantellare il manufatto. In caso di rifiuto, aggiunge l’intimazione, la demolizione sarà eseguita d’ufficio. Giorgio Rosa si appella al Consiglio di Stato, ma alla fine di settembre la richiesta di sospensiva viene respinta. Mentre avvocati e tecnici battono tutte le strade possibili per salvare l’isola d’acciaio, insinuazioni e sospetti aleggiano attorno all’ingegnere e alla sua Repubblica indipendente.
Scrive Rosa in un suo memoriale: “Persino Renato Zangheri, che poi diventerà sindaco di Bologna, sostiene che dietro a me c’è una Potenza straniera”, e qualcuno pensa all’Albania del dittatore Enver Hoxha, già fuori dal Patto di Varsavia. Tra rinvii e accertamenti tecnici, carte bollate e contatti con l’Avvocatura dello Stato, si arriva al 29 novembre, quando un pontone della Marina militare scarica sul molo di Rimini suppellettili e attrezzature prelevate all’Isola delle Rose. Si prepara l’ultimo atto. Poco prima della fine di gennaio del 1969, il pontone torna all’isola e i tecnici provvedono allo smontaggio delle sezioni removibili e alla demolizione di tutte le parti in muratura. L’11 febbraio entrano in azione gli incursori subacquei della Marina che piazzano 75 chilogrammi di dinamite accanto a ciascuno dei 9 piloni d’acciaio, alti 36 metri, che sostengono l’isola-Stato.
Il tutto si svolge senza la presenza di giornalisti che son dovuti restare sulla spiaggia di Rimini; solo un operatore militare documenta l’operazione in un filmino rimasto segreto per decenni. L’esplosione scuote l’Adriatico, ma non riesce ad affondare il manufatto. Due giorni dopo le cariche vengono raddoppiate ma, quando la densa nuvola di fumo si dirada, i militari si accorgono che la struttura telescopica dei piloni ha retto: l’isola è distrutta, ma alcune strutture emergono ancora dall’acqua.
La Repubblica delle Rose non vuol morire e solo una decina di giorni dopo si arrende definitivamente a una violenta mareggiata. L’annuncio della scomparsa viene pubblicato burocraticamente nel Bollettino dei Naviganti dell’Emilia Romagna, mentre l’ingegner Rosa mette in circolazione una nuova serie di francobolli con l’immagine dell’esplosione e la scritta Hostium rabies diruit opus non ideam: “La violenza dei nemici ha distrutto l’opera, non l’idea”. “Era proprio un’idea di libertà e fece paura a molti”, conclude l’ingegner Rosa. “L’Italia però da allora non è cambiata: farebbe paura ancora oggi”.
Testo di Viviano Domenici pubblicato sul numero 63 di Arte Navale. Su gentile concessione della rivista Arte Navale. Le immagini dell’Archivio famiglia Rosa sono pubblicate su gentile concessione della rivista Arte Navale. E’ fatto divieto per chiunque di riprodurre da mareonline.it qualsiasi immagine se non previa autorizzazione direttamente espressa dall’autore delle immagini al quale spettano tutte le facoltà accordate dalla legge sul diritto d’autore, quali i diritti di utilizzazione economica e quelli morali.
pubblicato il 28 Dicembre 2020 da admin | in Personaggi, Storie | tag: Antonio Molossi, Carlo Chierici, Cesarina Mezzini, Esperanta Respubliko de la Insulo de la Rozoj, Giorgio Rosa, Luciano Marchetti, Luciano Molé, Maria Alvergna, Pietro Ciavatta, Repubblica delle rose | commenti: 1
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Fatemi capire, con 40 anni di anticipo un italiano ha anticipato lidea di The Palm a Dubai e nessuno ne ha capito la portata turistica?